D'Annunzio e l'Abruzzo

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Centro Nazionale Studi Dannunziani

Atti del X Convegno, 5 maggio 1988

Presentazione di Ettore Paratore

"Alla terra d'Abruzzi, alla mia madre, alle mie sorelle, al mio fratello esule, al mio padre sepolto, a tutti i miei morti, a tutta la mia gente fra la montagna e il mare questo canto dell'antico sangue consacro". Così nel pieno della sua maturità, quando scalava l'erta per le maggiori conquiste artistiche, il D'Annunzio si rivolse alla terra natia dedicandole l'opera che forse contiene il suo impegno più intenso e costituisce il vertice della sua pur così vasta produzione. Proprio in terra d'Abruzzi essa è sceneggiata e vuol raffigurare, in una vicenda altamente drammatica ma piena di riferimenti all'intimo spirito della gente che lì abita, tutta la superstiziosa, istintiva ma in fondo comunicativa, espansiva mentalità della razza che ivi è maturata. Basta constatare l'incontro fra l'ascensione del poeta verso le vette della sua arte e il suo ritorno al fascino del paese natale per intendere quale peso abbiano per la poesia dannunziana la consapevolezza e l'approfondimento del legame che stringe l'autore alla terra dove è nato, dove ha elaborato il primo contatto con la seduttrice e irresistibile tentazione del bello scrivere, dove in frequenti soggiorni (basti pensare alle numerose e capitali opere composte nella michettiana Francavilla) ha dato vita a creazioni fra le più impegnative e felici. Eppure la Figlia di Iorio, l'opera che più delle altre dannunziane gronda di palpiti per la terra natale e ne costituisce la più commossa celebrazione, non è stata composta in Abruzzo, a Francavilla, come p. es. il Piacere, L'Innocente, come l'inizio (quando era ancora L'Invincibile) e la fine del Trionfo della morte, come le Vergini delle rocce, ma è stata composta nello spazio di un mese, dal luglio all'agosto del 1903, nella Villa Borghese fra Anzio e Nettuno, quando il poeta abitava già normalmente alla Capponcina.
Ad ogni modo l'Abruzzo è proprio l'ambiente da cui riceve la spinta iniziale l'attività del diciannovenne D'Annunzio, se, come naturale, decidiamo di accantonare la prematura, più che giovanile incursione letteraria di Primo vere. E l'Abruzzo che gl'ispira le prime accensioni della fantasia se nell'ambito lirico (Canto novo) si profila serenamente incline allo slancio di panico fervore naturista ("su' colli de '1 Sannio felici", "obliqui sprazzi di sole illustrano / i culmini de la Majella", "surge l'arco lunare / sovra i monti de '1 Sannio", "a 'l mio libero / tristo fragrante verde Adriatico", "Non queste / son le verdi acque de la Pescara?", "ecco Adriatico / sacro, e le libere vele", "l'Adriatico silente / ha barbagli terribili di lame", "La luna nova ne '1 tenero ciel d'ametista / pende su Montecorno ... Invida la Majella guarda", "s'allungan senza tremiti i cupi riflessi de' pioppi / giù nelle diafane acque de la Pescara / che eguale fluisce di sotto il gran ferreo ponte / silenziosamente a l'Adriatico", "l'Adriatico glauco apriva occhi d'oro"), nella novellistica in obbedienza al verbo zoliano apre in Terra vergine le crude prospettive del furore sensuale di Tulespre, della gelosia omicida di Dalfino, del dissennato suicidio di Cincinnato, dell'orrore di Lazzaro richiamante con la grancassa alla visione del mostruoso figliolo, dell'altro disperato suicidio di Biasce, della morte del mutilato Toto e della sua Ninnì fra la neve, della frenesia per Mena che uccide frà Lucerta, della lussuria di Nora, del selvaggio scontro fra Ziza e Jori per l'amore di Mila (già s'affaccia nell'arte dannunziana questo nome destinato a ben squillante risonanza). E nelle successive Novelle della Pescara il quadro di una regione bestialmente primitiva, sussultante orrendamente nell'empito dei rigurgiti più animaleschi si disegna spietato e raccapricciante ne Gli idolatri, ne L'eroe, ne La morte del duca d'Ofena, ne La fine di Candia, ne La madia, ne La guerra del Ponte, fino alla cupa agonia di Gialluca ne Il cerusico di mare. Sotto l'influsso del messaggio naturalistico inteso nella forma più smodatamente esibizionista la regione natia è presentata come una terra immersa ancora nella barbarie, rampollante di acri impulsi dettati dalla più truce violenza. E quando non si precipita nello spasimo della tragedia, si effonde il lezzo del più amaro e lercio stravolgimento di ogni umana costumanza civile ne I marenghi e ne La contessa d'Amalfi.
La posteriore narrativa dannunziana ricorrerà spesso in forme di larga partecipazione ancora al tema dell'Abruzzo. Ne L'Innocente ciò che di esso prevale è la bellezza del paesaggio che aveva sprigionato i suoi primi bagliori in Canto novo e nelle raccolte novellistiche ma ora dispiega il suo fascino nelle musicali pagine su Villalilla. È il primo aspetto positivo della terra originaria che finalmente l'arte dannunziana ospita, indugiando sul quadro che costituirà il suggestivo sfondo della Figlia di Iorio. Due anni dopo nella seconda parte del Trionfo della morte, se il baluginare delle scoscese coste di Ortona e S. Vito reca all'impianto narrativo il sinfoniale accordo della veduta naturale, campeggia in primo piano un brusco ritorno all'ossessione veristica dominante nelle novelle, con la brutale raffigurazione del pellegrinaggio degl'infermi al santuario di Casalbordino. Se nel coevo Lourdes Emilio Zola aveva sentito il bisogno di soffermarsi piuttosto sui moti di pietà indotti dalla visione delle umane miserie, il D'Annunzio non esitava a incidere crudelmente lo spettacolo ripugnante di una massa deformata da morbi, da putrescenze, da sozzure e sprofondata nel baratro dell'ignoranza, della superstizione e della ferma laidezza.
Nelle Vergini delle rocce ha luogo il più deciso mutamento d'indirizzo dell'arte dannunziana: si abbandona ogni concessione al naturalismo, si architetta una forma di romanzo quasi priva di trama, tutta concentrata nelle rivendicazioni ideologiche del protagonista e precorrente negl'intermezzi lirici le ascensioni espressive di cui saran ricche le Laudi pur con un ritorno spesso magniloquente alla plastica possanza delle evocazioni naturali. La visione di Rebursa, di Trigento, di Linturno e di Sedi, nomi coniati dal romanziere nel dar vita a un paesaggio abruzzese di rocce e di parchi1, percorso da un fiume anch'esso immaginariamente denominato dal D'Annunzio, il Saurgo (il Sangro?)2 si convelle nel prestigioso brano della fontana rigorgogliante, simbolo della nuova vita che Claudio Cantelmo adduce all'isolato e pallido feudo dei Capece Montaga, che avventa le sue rocce con "un muto furore" contro il cielo; e si distende in un'insistita visuale delle prospettive solinghe e misteriose che il luogo carico della maestà di un grande passato al tramonto offre ancora a chi ne avverte l'occulta suggestione. Ed ecco sul finire l'apparizione del "lago inferno, opaco e inerte come l'occhio cieco d'un mondo sotterraneo", "il cratere vorticoso in cui l'impeto del fuoco primitivo era rimasto fisso"; questa natura accantonata in un angolo remoto del romito Abruzzo si separa da noi ostentando le sue forme più marcate, facendo trapelare la sua carica nascosta ma vitale e minacciosa.
Procedendo nella sua provocante offerta di un tipo di romanzo che non aveva più nulla della struttura consueta della narrativa diffusa allora nelle lettere europee3, il D'Annunzio propose col Fuoco una raccolta di pagine virtuosisticamente tramate sopra una sottile e raffinata effervescenza verbale volta a echeggiare la sovrabbondante scansione orchestrale della musica di Riccardo Wagner, al quale in ogni sua fase il romanzo fa riferimento sino ai tocchi finali dedicati ai funerali del grande; un abbozzo di sviluppo è dato dal tormento della Foscarina nell'avvertire i pericoli cui il suo corpo senescente espone l'avido amore ch'essa prova per Stelio Effrena in confronto col fascino giovanile della provetta cantante Donatella Arvale. Eppure nell'ostentato isolamento delle farneticazioni superomistiche ed estetizzanti del protagonista entro il consuonante ambito di una Venezia vista e sentita come magico scrigno della lussuosa pittura cinquecentesca e come sede di un'enigmatica esistenza fatta di veli, di liquidi riflessi, di smaganti opalescenze ecco la nostalgia di Stelio, incarnazione dell'autore, animarsi di un commosso ricordo di paesaggio abruzzese che si plasma in uno dei più accattivanti riquadri della ben calibrata immaginativa dannunziana:
"Poi passavano le greggi, lungo la riva del mare: venivano dalla montagna, andavano verso le pianure della Puglia, da una pastura a un'altra pastura. Le pecore lanose camminando imitavano il movimento delle onde; ma il mare era quasi sempre quieto, quando passavano le greggi con i loro pastori. Tutto era quieto4; su le spiagge era disteso un silenzio d'oro. I cani correvano lungo i fianchi della mandra; i pastori s'appoggiavano alle aste; fiochi erano i campani in quell'immensità. Tu seguivi con gli occhi il viaggio sino al promontorio. Poi, più tardi, andavi con la sorella a guardare le tracce nella sabbia umida che qua e là era bucherellata e dorata come i favi".
Con eguale spirito di affettuosa rimembranza l'Abruzzo bucolico è rivissuto e cantato con elegiaco, sapientissimo accoramento nel pieno del libro di Alcyone con la prima lirica dei Sogni di terre lontane, intitolata appunto I pastori, che fa esplicito riferimento alla terra natale: "Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori / lascian gli stazzi e vanno verso il mare: / scendono all'Adriatico selvaggio / che verde è come i pascoli dei monti"; "vanno verso il mare" rammenta "passavano lungo la riva del mare" del brano del Fuoco che trova eco anche in "Ora lungh'esso il litoral cammina / la greggia", come "Senza mutamento è l'aria" allarga l'espressione che nel brano del Fuoco era espressa in "su le spiagge era disteso un silenzio d'oro". E il tocco che lì concerne "le tracce nella sabbia umida... bucherellata" ascende alla visione globale "Il sole imbionda sì la viva lana / che quasi dalla sabbia non divaria". Nel libro di Alcyone un'altra terra italica è celebrata e assiduamente prospettata con meravigliose increspature figurative, la Versilia e tutta la Toscana; nel poetico estro del lirico giunto alla più miracolosa potenza dei suoi accenti s'è trasfuso il fascino della stupenda regione, così doviziosa di memorie, in cui egli dimorava. Ma i cenni all'Abruzzo natio si frappongono non solo nella lirica ora richiamata, ma anche nel luogo dell'estesa Bocca di Serchio in cui si esaltano le "bocche delle fiumane venerande": "Il natale Aterno, imporporato / di vele, splende come sangue ostile".
Contemporaneamente l'attaccamento all'Abruzzo che aveva dominato la fantasia del poeta nelle sue prime prove liriche e narrative erompe nella sua attività di autore drammatico ispirandogli le due tragedie sceneggiate nella terra natia, che segnano, specie la prima, la sua massima affermazione come scrittore di teatro e determinano nella nostra letteratura il distacco decisivo dal dramma borghese imperniato sulla tipica triade del marito, della moglie e dell'amante. A voler essere pedanti si potrebbe obiettare che nelle due tragedie abruzzesi dannunziane si affaccia una situazione del genere: nella Figlia di Jorio il tempestoso amore per Mila, che lo induce a rifugiarsi con lei in una caverna montana, strappa Aligi alle nozze con Vienda; nella Fiaccola sotto il moggio il degradante amore di Tibaldo per la serva Angizia spinge costei ad assassinare donna Monica, la moglie del padrone, per divenire a sua volta la consorte di costui. Ma è innegabile che nel D'Annunzio la situazione tocca tali vertici di drammaticità che ogni accostamento al triangle del dramma borghese di stampo parigino appare assurdo. Sulle due tragedie abbiamo abbondantemente discorso sì che non è il caso di iterare quanto abbiamo già detto. E abbiamo già detto che, in base a notizie date da giornali, sembra che il D'Annunzio avesse wagnerianamente progettato una tetralogia di tragedie abruzzesi di cui la Figlia di Jorio sarebbe stata la seconda, la Fiaccola sotto il moggio la terza, mentre la prima sarebbe stata Primavera sacra e l'ultima il dio scacciato. Dato che ci stiamo intrattenendo sui legami fra l'arte dannunziana e l'Abruzzo, sarà forse opportuno soffermarsi sui riflessi delle costumanze e dei paesaggi abruzzesi nelle due opere. Nella Figlia di Jorio in cui la gente abruzzese non è più vista sotto il profilo difforme e negativo schizzato nelle raccolte novellistiche e nel Trionfo della morte, tutto il secondo atto, in cui l'urto drammatico tocca il culmine della veemenza, si svolge in una caverna montana, cioè, come è facile supporre, in una grotta della Maiella ("la Maiella con tutta la sua neve" è detto da Aligi nella seconda scena dell'atto primo) da cui si scorgono "i pascoli verdi, i gioghi nevati"; i due innamorati parlano anch'essi del pellegrinaggio a Roma e della discesa verso la Puglia del pastore Aligi che nella terza scena dell'atto vedrà apparirgli davanti due suoi colleghi che tengono stretto un giovane invasato. Prima nella grotta hanno dormito Malde il cavatesori e Anna Onna, la vecchia dell'erbe, figure che scolpiscono il favoloso ambiente primitivo su cui poggia la tragedia. Su queste figure di contorno si erge quella di Cosma il santo, che ammonisce il pastore sviatosi dalle direttive morali del suo mondo:

Prima che tu prenda
la via nova, considera la legge.
Chi perverte la via, sarà fiaccato.
Guarda il comandamento di tuo padre.
Segui l'insegnamento di tua madre.
Tienli sempre legati in sul tuo cuore.
E Dio guidi il tuo piè, che non sia preso
nei lacci e non incappi nella brace.

Di pari passo con queste significative apparizioni nella caverna va la cura con cui, nel primo e nel terzo atto, si anima il coro delle creature che assistono all'azione, che la commentano, che vi partecipano con l'effusione del sentimento, e che così rendono alla perfezione l'ambiente che dà i connotati allo sviluppo tragico. All'inizio le parenti vengono prima una per una, poi finiscono per formare il coro che scandisce e sottolinea tutta l'azione, dall'irrompere di Mila nel momento in cui esse si adunano per festeggiare le nozze fra Aligi e Vienda all'affannoso alternarsi di gesti e di atteggiamenti fra Aligi e Mila, mentre il coro delle donne insiste perché Mila sia allontanata, sino all'arrivo di Lazaro ferito; e alla fine la massa delle lamentatrici fa da basso continuo a tutto il drammatico sviluppo conclusivo imperversando su Mila e scagionando Aligi. Ad allargare la coralità circondante il gioco scenico dei protagonisti ecco nel primo atto anche il coro dei mietitori reclamanti golosamente il corpo di Mila.
Nella Fiaccola sotto il moggio gli elementi ambientali spiccano nella raffigurazione della valle del Sagittario specie attraverso le parole di Simonetto che la vuole rivisitare, nei tocchi dedicati alla rovina del palazzo dei de Sangro e soprattutto nella figura del serparo che colorisce di una prospettiva cupamente favolosa tutta la tragedia chiusa vincolandola a tradizioni fiorenti specie nella zona di Cocullo.
Nel D'Annunzio tardo l'Abruzzo ricompare come ricordo e nostalgico rifugio nelle prose intime dal Notturno alle Faville del maglio, Il venturiero senza ventura e il Compagno dagli occhi senza cigli, a Il secondo amante di Lucrezia Buti, anche se composto nel 1907, e al Libro segreto. In questo Convegno ne parlerà Francesco Desiderio, e io non ne voglio anticipare e usurpare le riflessioni. Ad ogni modo le rievocazioni riguardano soprattutto la prima giovinezza e non coinvolgono quindi un'impegnativa elaborazione di trame narrative o drammatiche. La presenza della terra natia permane come eco commossa di un elemento genetico di sostanziale importanza nel mondo poetico e spirituale dell'autore. Egli non rinuncia ad ammettere e a chiarire che ciò ch'egli sentì e intuì da giovanissimo sotto la spinta e la suggestione del mondo in cui viveva ha conservato la sua sussistenza in compagnia delle idee e delle fantasie dettate dai testi cui s'è ispirato, anzi ne ha maturato più profondamente l'influsso. Ciò conferma la vitalità del motivo abruzzese nell'opera dannunziana, per cui perciò si giustificano l'organizzazione e la struttura del presente Convegno.

NOTE

1. Si tenga presente che Sedi è il nome di un comune in provincia di Lecce.
2. Ma in Aspetti della personalità letteraria del D'Annunzio ho specificato che il paesaggio abruzzese qui raffigurato è in fondo quello in cui è sceneggiata la Fiaccola sotto il moggio.
3. Per fortuna poi in Forse che sì forse che no il D'Annunzio ritornò a una trama complessa e drammatica, raggiungendo la più alta sommità della sua opera narrativa.
4. Si noti il valore di ribattuta musicale in questa ripetizione dei vocaboli più circonfusi di sensi e di riflessi.

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